Dopo il coronavirus gli imprenditori dovranno prendersi il Paese in spalla
Mi piace condividere con voi un interessante articolo presente sulla Rete sul ruolo degli imprenditori nel post Coronavirus…e non solo.
scritto da Beniamino Piccone il 06 Aprile 2020
“Dove eravamo rimasti?”, si chiese al ritorno in tv a “Portobello” Enzo Tortora dopo l’esilio forzato. E’ la stessa domanda che si porranno alla fine dell’emergenza Coronavirus tutti i giorni gli imprenditori che tengono in piedi il nostro Paese. Ma oggi ci si domanda come fare a sopravvivere. Tra le tante testimonianze lette, mi ha colpito quella di Donato Menin, patron della Menin Floricoltura di Carceri, fabbrica di orchidee in provincia di Padova. Più il tempo scorre, più sono i camion di orchidee che vanno al macero. Anche donarle non si può, per evitare assembramenti. Come si possono regalare produzioni settimanali di fiori? Sono ben cinquantamila le piante settimanali che Menin produce, e oggi sono senza mercato. Sconsolato, dice: “Il danno è enorme, 250mila euro la settimana. Resisto solo per passione”.
I veri imprenditori non lavorano 20 ore al giorno per i soldi, non fondano le loro aziende se non per passione, per canalizzare le loro formidabili energie. Joseph Schumpeter nella “Teoria dello sviluppo economico” scriveva (a solo 28 anni!) che gli imprenditori sono soggetti “forti”, che propendono a esercitare il loro dominio attraverso una prorompente energia. Come scrive Giuseppe Berta nell’“L’enigma dell’imprenditore (e il destino dell’impresa)” (il Mulino, 2018), si tratta di persone che possiedono un’“eccedenza di energia”, che svolgono un’attività inesausta, tale da costituire uno “scopo in sé”. Per l’imprenditore il piacere dell’azione è una struttura della sua “realtà psichica”.
L’imprenditore vero sta fuori dai palazzi del potere, è lontano sideralmente dalla “razza padrona” raccontata da Turani e Scalfari, non si accontenta mai, non è mai soddisfatto. Proprio qualche giorno fa è scomparso l’imprenditore del lusso Sergio Rossi, il perfezionista delle scarpe. Era instancabile nel ricercare un equilibrio tra comfort e design, ha saputo trasformare le scarpe femminili in oggetti di culto, destinati all’esportazione in tutto il mondo. Lo faceva per soldi? Giammai. Così raccontava: “Arruolai i migliori artigiani da tutta Italia per imparare i segreti della comodità, di come la suola deve aderire al piede per non creare scompensi dannosi alla salute”.
Tra le cose più intelligenti lette in queste settimane c’è sicuramente Giovanni Cagnoli – imprenditore, già cofondatore di Bain Italy – che ha messo in fila le problematicità della prossima riapertura graduale, tra le quali c’è la sparizione della base imponibile che consente di creare ricchezza e quindi imposte, “non solo e non sempre per pagare sussidi, ancorché oggi necessari”. C’è da stare attenti a creare le condizioni per un’economia basata sull’emergenza, dove i sussidi da temporanei diventano sempiterni. In Italia sappiamo che le deroghe (vedasi la cassa integrazione in deroga) diventano strutturali e incancellabili.
Spetterà agli imprenditori ripagare l’enorme debito pubblico che l’Italia sarà costretta a creare per salvare il sistema economico, colpito a morte dallo stop produttivo. Come ha scritto Cagnoli, “ogni posticipazione della riapertura ha un costo più che proporzionale. 2 mesi invece di 1 non costa 2 volte tanto; costa 2,5 volte…Questo per due motivi: la rottura della supply chain e la desuetudine/paura dei consumatori finali a riprendere le loro abitudini”.
Siccome la crisi durerà molti anni, bisogna pensare non solo ai prossimi 3 mesi ma anche ai prossimi 20 anni. E allora gli imprenditori si devono dotare di un armamentario valoriale eccellente altrimenti non ce la faremo. Servono coraggio, audacia, visione e competenze.
Sempre Berta – analizzando come un entomologo i testi di Schumpeter – ci ricorda il ruolo dell’imprenditore e la sua “azione creatrice” al centro di tutto. Per spezzare un’economia statica è necessario l’intervento di un “particolare gruppo di uomini”, che non fonda il proprio comportamento su una convenzionale razionalità di tipo utilitaristico ma che si fa portatore di nuove forme d’azione, di un “agire energico” capace di mutare la realtà esistente. Schumpeter spiega come l’“uomo d’azione” cambia la realtà. Berta scrive che si tratta di una “volontà di trasformazione (una Wille zur Macht, una volontà di potenza, riprendendo Nietzsche) che assoggetta a sé la realtà per piegarla alla sua volontà”.
Nei prossimi anni ci sarà un gran bisogno di persone con eccesso di energia, di “agire energetico”. Ed è per questo che si deve puntare sull’istruzione, che deve formare giovani energetici e capaci di pensare e agire in modo conseguente, di fronte a un mondo in continuo mutamento. La domanda che ci si deve porre è se la scuola attuale sia in grado di formare persone con un’attitudine forte al rischio d’impresa. Più che manager, abbiamo bisogno di imprenditori. Che innovino. Per Schumpeter di può parlare di imprenditorialità soltanto dove si crea innovazione: imprenditore è solo chi “realizza nuove combinazioni”, chi agisce da leader, sia o meno il proprietario dell’impresa.
Uno dei maggiori geni del nostro tempo, Steve Jobs, fondatore di Apple, aveva criteri molto particolari per distinguere chi fosse un vero imprenditore:
“Non sopporto che si definiscano «imprenditori» persone che in realtà cercano solo di lanciare una startup per poi venderla o quotarla in modo da incassare quattrini e passare oltre. È gente che non vuole sobbarcarsi l’onere di creare una vera azienda, che è l’operazione più difficile del mondo del business, ma anche la via per dare un vero contributo e onorare, incrementandola, l’eredità di chi è passato prima di noi: costruire un’azienda che dopo una o due generazioni sia ancora in vita”.
A Jobs i soldi non interessavano, “non conta fare soldi, bensì creare grandi cose e rimettere il più possibile quelle cose nel flusso della storia e della coscienza umana”. Anche Sergio Marchionne – che dopo la «distruzione creativa» schumpeteriana compiuta in FIAT, ha senso più che mai definirlo imprenditore – lavorava in modo indefesso 20 ore al giorno senza riposo. Come ha scritto Mario Calabresi, Marchionne «aveva fame, quella voglia di rivalsa e di affermazione che nasce dalla fatica».
Cari italiani, non guardate solo il sito dell’Inps alla ricerca di aiuti dal settore pubblico (prima o poi i soldi finiscono, non abbiamo la stamperia), pensate a cosa potete fare voi per il Paese (JF Kennedy, cit.). Guardiamo ai migliori esempi, italiani e mondiali.
Solo grazie alle imprese rinasceremo.